EMANUELE & OLINALDA - LA VITA È L´ARTE DELL´INCONTRO

A VIDA É A ARTE DO ENCONTRO

Thursday, December 27, 2007

San Pio X


UN GRANDE PAPA UN GRANDE SANTO

Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso) il 2 giugno 1835, nel Veneto austriaco, assegnato alla sfera d'influenza dell'impero austro-ungarico, secondo le decisioni del Congresso di Vienna (1815). Di carattere sveglio e vivace, impulsivo e rigoroso, era molto bravo a scuola e a volte sostituiva il maestro. Imparò presto a leggere e scrivere, e frequentava assiduamente la Chiesa, non mancando mai alla Dottrina cristiana, al catechismo ed alle altre istruzioni.
Ogni giorno si recava a pregare presso il Santuario mariano delle Cendrole, la pieve matrice di tutte le comunità parrocchiali dei dintorni e fin dall'infanzia si sentì chiamato al sacerdozio. Il parroco don Tito Fusarini oltre che alla Dottrina cristiana, lo avviò allo studio del Latino.
A 10 anni ricevette il Sacramento della Cresima ad Asolo, il 1° settembre 1845, dal vescovo Giovanni Battista Sartori Canova, e fu ammesso alla Prima Comunione ad 11 anni, il 6 aprile 1846.
Il 22 agosto 1846 sostenne da privatista l'esame di chiusura del ciclo primario di studi presso la Scuola Elementare Maggiore di Treviso e iniziò a frequentare il ginnasio a Castelfranco. Si recava giornalmente nel capoluogo castellano, distante da Riese 7 chilometri, a piedi (a volte con gli zoccoli sulle spalle, per non consumarli) o con passaggi su carri. Ogni semestre sosteneva l'esame presso il seminario di Treviso, risultando sempre primo col massimo dei voti. Per il pranzo si recava presso la famiglia di Giovanni Battista Finazzi, esattore delle imposte del distretto, e qui talvolta si fermava anche per dormire e per dare lezioni private ai bambini. Coronò i suoi studi nel 1850 presso il seminario di Treviso (unico istituto della Diocesi che potesse attestare il valore legale degli studi mediante esame) a pieni voti, risultando eminente in tutte le materie.
La sua famiglia, povera come tante altre in quei tempi, ma non fra le più povere di Riese, era una famiglia unita, patriarcale: una delle numerosissime famiglie di "cattolici" di Riese che costituivano la comunità parrocchiale di S. Matteo e che vivevano intensamente il loro credo.

Nel seminario di Padova (13 novembre 1850-14 agosto 1858)
Per potere permettere a Giuseppe Sarto il proseguimento degli studi intervenne il cardinale e poeta riesino Jacopo Monico: i
l 28 agosto 1850 giunse alla famiglia Sarto la comunicazione che il giovane Giuseppe poteva entrare nel Seminario di Padova ed occupare il posto gratuito previsto dal collegio Tornacense Campion. Il 19 settembre 1850, a 15 anni, vestì l'abito clericale ed il 13 novembre entrò definitivamente nel seminario patavino. Il giovane seminarista rimase sempre in contatto epistolare con i suoi educatori ecclesiastici a Riese, in particolare con don Pietro Jacuzzi.
Spiccava, oltre che per capacità intellettuali, anche per la forte personalità: a 19 anni fu ritenuto dai superiori in grado di fungere da "prefetto primo" di camerata per i chierici. In questa veste doveva stendere dei giudizi sintetici sui suoi compagni di vocazione, evidenziando i tratti essenziali dell'indole di ciascuno: gli storici hanno individuato in essi una singolare capacità di comprendere l'animo umano.

Nel seminario patavino curò soprattutto il Latino e la Musica Sacra. Il suo interesse per quest'ultima fu veramente notevole: si cimentò nella composizione di 15 pezzi musicali per la Settimana Santa, fu scelto come maestro di musica dei chierici e fu eletto direttore della Cappella Musicale del seminario.

Nelle discipline dell'ordinamento degli studi risultò sempre fra i primi, in particolare fu eccellente studente di Latino e di matematica, un po' meno in filosofia.
Tra il 1855 ed il 1858 fu ammesso ai vari gradi degli ordini ecclesiastici, nel seminario di Treviso dal vescovo Farina: dapprima agli ordini minori (ostiariato e lettorato, 22 dicembre 1855 - esorcistato e accolitato, 6 giugno 1857), poi agli ordini maggiori (suddiaconato, 19 settembre 1857 - diaconato, 27 febbraio 1858).
Ricevette il sacramento dell'ordine sacro il 18 settembre 1858, nel duomo di Castelfranco Veneto dalle mani del vescovo di Treviso, Giovanni Antonio Farina, il fondatore delle suore dorotee. Aveva poco più di 23 anni, uno in meno dell'età richiesta: per diventare sacerdote aveva dovuto richiedere alla Santa Sede la dispensa. Il giorno dopo, 19 settembre, cantò la sua prima messa a Riese.
Del seminario patavino conservò sempre ottimo ricordo: a Venezia, nel dicembre 1894, ormai cardinale e Patriarca, si espresse qualificando l'ottennio di Tombolo come "gli anni più belli della mia vita".

Cappellano di Tombolo (novembre 1858-maggio 1867)
Come cappellano fu destinato a Tombolo, parrocchia in provincia di Padova ai confini della diocesi di Treviso, a pochi chilometri dalla città di Cittadella, prima comunità della diocesi di Padova.
A Tombolo il neo sacerdote e neo cappellano iniziò a donare alla gente più povera il frumento che gli spettava per la funzione sacerdotale svolta: c'erano persone, del tutto bisognose di sostentamento, che sentiva (come testimoniano gli storici) come suoi diretti fratelli, quasi facenti parte di un'unica famiglia, con tutti i crucci economici e giuridici che ciò comportava. Il suo parroco don Antonio Costantini, che più volte sostituiva per le sue precarie condizioni di salute, lo seguiva con l'occhio critico del pastore che sentiva l'onere di indirizzare alle future responsabilità i sacerdoti a lui affidati: con lui il neosacerdote discuteva e si consultava, acquisendo esperienza pastorale.
A Tombolo iniziò a scrivere prediche, discorsi sacri e istruzioni catechistiche (tutto il materiale omiletico da lui composto in vari periodi fu raccolto in seguito in cinque volumi, ora conservati nella Biblioteca del seminario di Treviso). In particolare, sotto la guida "maieutica" di don Costantini, acquisì una certa fama oratoria: con una punta d'ironia veniva denominato "cappellanus de cappellanis" perché, reso celebre nella diocesi di Treviso, era richiesto nelle varie parrocchie, e perfino giunse a recitare nella cattedrale un panegirico sul Beato Enrico da Bolzano, un patrono secondario della città di Treviso.
Contemporaneamente si dedicava ad opere di carità, trascurandosi nelle vesti e rinunciando anche a necessità vitali. Aveva una sua concezione provvidenziale, fatalistica ed immobilistica della povertà e della ricchezza: nel celebre discorso funebre pronunciato a Cittadella (Padova) in occasione dell'anniversario delle esequie della contessa Elisabetta Viani (24 novembre 1863), enunciò la sua teoria sul rapporto tra povertà e ricchezza, secondo la quale per i poveri non era concepibile un riscatto sociale se non nella misura in cui dovevano permettere ai ricchi di entrare nel Regno dei Cieli.
La sua quotidianità era caratterizzata da un'attività frenetica: dormiva poco (al massimo 4 ore), era impegnato ed onnipresente, sostituiva il parroco durante gli attacchi della malattia. Lo chiamavano "moto perpetuo" per la sua incessante attività in parrocchia e fuori. Sempre a contatto diretto colla popolazione di giorno, alla sera dava lezioni di canto corale e si rendeva disponibile per insegnare a leggere e a scrivere ai numerosi analfabeti. Studiava, alla fine della sua giornata, le opere di San Tommaso, la Sacra Scrittura, il Diritto Canonico (che a quel tempo era solo un miscuglio di norme giuridiche accumulatosi nei secoli).
Dei suoi magri guadagni non investiva alcunché: i testimoni ai processi canonici assicurano coralmente l'esercizio costante della carità materiale da parte del loro cappellano. Era sicuro che la Provvidenza lo avrebbe sempre sorretto e guidato, e donava quello che aveva, giungendo a contrarre debiti (che riguardavano pure la sua famiglia di Riese), per onorare i quali cominciò a conoscere la via dei Monti di Pietà di Cittadella e di Castelfranco Veneto (Treviso), dove impegnava il suo orologio d'argento. Per tutte queste caratteristiche umane, il Costantini profetizzò: "Presto lo vedremo parroco di una delle più importanti parrocchie della diocesi, poi lo vedremo con le calze rosse...e poi...chissà!".

Nel 1867 fu invitato dal suo vescovo, mons. Federico Maria Zinelli, a partecipare ad un concorso per assumere la responsabilità pastorale di una delle cinque parrocchie allora vacanti. Il 21 maggio 1867 fu nominato parroco di Salzano, in provincia di Venezia ma in diocesi di Treviso, la più importante tra le parrocchie messe a concorso.
Quando partì venne rimpianto da tutti i tombolani.
Parroco di Salzano (maggio 1867-novembre 1875)
Nella parrocchia di S. Bartolomeo di Salzano fece il suo ingresso senza alcun festeggiamento la sera di sabato 13 luglio 1867. La sua venuta non era gradita da parte della popolazione e dai maggiorenti del luogo, abituati a parroci di grande esperienza e di fama. Le parole di scarso apprezzamento ed i mugugni non si sprecarono: troppo giovane (32 anni) per una comunità così importante, poche referenze, poca notorietà. Un prete insomma "che no se ghe darìa un schèo" (un sacerdote di poco valore),... ma ben presto tutti dovettero ricredersi!
L'impegno maggiore del nuovo parroco fu quello della catechesi degli adulti e dei fanciulli. Istituì un catechismo a dialogo con don Giuseppe Menegazzi, suo successore alla guida della parrocchia dal 1876 al 1885. Frutto concreto di questa metodologia sono due quaderni manoscritti, valorizzati da mons. Francesco Tonolo nel 1954 e da mons. Giuseppe Badini nel 1974, che contengono 577 domande e risposte
. Questa prassi catechistica richiamava a Salzano i fedeli delle parrocchie limitrofe, che disertavano le proprie chiese con conseguenti lagnanze dei parroci presso il vescovo, che si limitava a suggerire: "fate anche voi altrettanto!". Accanto alla catechesi ordinaria curava la Confraternita della Dottrina Cristiana, eretta nel 1723.
Altro aspetto per cui è universalmente nota l'azione pastorale di don Giuseppe Sarto a Salzano è quello dell'ammissione all'eucaristia dei fanciulli in giovanissima età, proprio appena erano capaci di distinguere la differenza fra il pane-cibo quotidiano ed il pane-cibo spirituale: anticipò tale ammissione all'età di 8-9 anni, mentre era in uso pressoché generalizzato un avvicinamento alla mensa eucaristica intorno ai 12-14 anni.
Liturgia e musica sacra erano per lui momenti di grande intensità e indissolubilmente legati tra loro: restaurò l'organo settecentesco del Moscatelli, ampliato dal Callido e dai Fratelli Bazzani (9 novembre 1867), e nell'inverno 1868 istituì una scuola serale di canto.
L'attività pastorale sul versante mariano si realizzò soprattutto nei confronti della Madonna del Carmine, onorata sotto il nome locale di Madonna della Roata, istituì la pia pratica del mese di maggio (1869) che prima non esisteva, ed onorò la Madonna Immacolata Vergine commissionando una pala d'altare nell'oratorio posto in località Castelliviero. Contribuì ad aumentare il culto di S. Antonio di Padova, di S. Luigi e di S. Valentino con la pala commissionata nel 1870 al pittore veneziano Pietro Nordio.
Sul fronte più strettamente amministrativo, certamente non lieve fu la gestione del passaggio dal regime legato alla dominazione austriaca a quello dell'Italia appena uscita dalla Terza Guerra d'Indipendenza, che trasferì al Veneto la legislazione giacobina ed anticlericale piemontese. Si trovò subito a rivendicare alla sua nuova parrocchia il lascito del suo predecessore, don Antonio Bosa (Pagnano, 1804-Salzano, 1867), che riuscì a trasformare nella Pia Opera Bosa, con un pensiero particolare dedicato alle giovani maritande di onorato costume, ai giovani ed al lavoro giovanile.
Come molti parroci veneti dell'Ottocento, si trovò investito della responsabilità di dirigere le scuole del comune: fu infatti eletto direttore nel 1868 e sopraintendente nel 1869; tra l'altro durante la sua cura parrocchiale fu aperta la sezione femminile della scuola comunale (prima, durante il governo austriaco, per le donne non era prevista alcuna istruzione). Il suo pensiero mirava anche all'alfabetizzazione degli adulti, per la cui istruzione si adoperò durante le ore serali.
Sul fronte degli anziani e della sanità pubblica, potenziò il locale ospedale civile (uno dei pochi della provincia di Venezia, chiuso per ragioni finanziarie nel 1883) e la annessa casa di ricovero per anziani, fondati da don Antonio Bosa nel 1855 in seguito al lascito di don Vittorio Allegri,
dotandoli pure di adeguata normativa (statuto e regolamento interno).
Come a Tombolo, anche a Salzano dedicava poco tempo al riposo notturno. Studiò in modo particolare i Padri della Chiesa, si esercitò nell'oratoria ecclesiastica e continuò a scrivere prediche.
Molto utile per ricostruire tutte le sue iniziative è un Registro di una cassa privata, che teneva parallelamente a quella ufficiale, nella quale annotava ogni minima spesa sostenuta. In esso sono annotate tra l'altro le misere entrate, quasi tutte imputabili alla borsa fatta girare in chiesa e alle cosiddette "cérche", cioè alle questue in generi di natura, quali frumento, granoturco, uva, legna, galletti, bozzoli da seta (galette), uova, vino), e le spese, il cui capitolo più rilevante e pesante va cercato nella estinzione di un gravosissimo debito acceso dal predecessore don Antonio Bosa, che aveva voluto intorno al 1843 ricostruire quasi radicalmente la chiesa in stile neoclassico, debito che gli riuscì di onorare "usque ad ultimum quadrantem" il 12 dicembre 1873, pagando le ultime 1000 lire.
Quanto al lavoro femminile don Giuseppe Sarto si impegnò anche affinché fosse industrializzata un'attività locale legata al baco da seta: il 26 settembre 1872 fu infatti inaugurato da Moisè Vita Jacur un setificio che dava lavoro a circa 200 ragazze del luogo. Il parroco contribuì anche alla fabbricazione dell'opificio assumendo l'impresa della fornitura della ghiaia necessaria "nella speranza di poter in qualche modo, colle semi gratuite prestazioni dei Parrocchiani, provvedere agli urgenti bisogni della Povera Chiesa".
Dal punto di vista religioso portò in auge le 40 ore di adorazione del Santissimo nella Settimana Santa e riorganizzò la Confraternita del Santissimo nel 1875, proprio nell'anno in cui fu promosso canonico del capitolo di Treviso. Un altro obiettivo che aveva intenzione di realizzare nello stesso anno fu quello dell'associazione delle Figlie di Maria, ma fu realizzato dai suoi successori.
Esercitò la carità e si affidò alla Provvidenza: continuò a perfezionare, in questo ambito, anche a Salzano il comportamento quotidiano che aveva già ampiamente collaudato a Tombolo, perché donava biancheria personale, i cibi che le sorelle cucinavano, la legna, il grano, le scarpe. Più volte impegnò al Monte di Pietà di Venezia il suo anello parrocchiale.
Durante l'epidemia di colera che nel 1873 aggredì (come già nel 1836, nel 1847 e nel 1855) il comune e la parrocchia di Salzano, il parroco Sarto si impegnò in prima persona, con sprezzo della sua vita. Tracce significative della sua partecipazione al dramma che aveva coinvolto i suoi parrocchiani si ritrovano nei registri parrocchiali dei morti. Il momento più alto del coinvolgimento emerge dalla lettura degli atti di morte di due giovani sposi, Vittorio Gambaro e Bottacin Giuditta, rispettivamente di 21 e 20 anni. Il Gambaro morì di colera, ed il suo decesso fu registrato negli atti parrocchiali. Poche ore dopo però morì anche la giovanissima moglie. Così il parroco consegnò ai posteri l'accaduto, con un messaggio di fede e di speranza: "Povera sposa. assistendo indefessa al letto del marito Gambaro Vittorio contrasse il morbo che in sole 5 ore la fé raggiungere lo sposo. E così quei che l'amore fé uniti in vita et in morte non sunt divisi. Sit perpetua animabus benedictis requies".
Il superimpegno gli comportò un notevole stress, tanto che si temette per la sua salute, ma riuscì a superare anche questa prova. Lasciò Salzano ufficialmente il 16 settembre 1875.

Canonico a Treviso (novembre 1875-novembre 1884)
Aveva quasi quaranta anni e mezzo quando sedette a Treviso sul suo stallo canonicale nella prima domenica di Avvento, il 28 novembre 1875.
Chiamato dal vescovo Zinelli, svolse attività fra la Cattedrale, la Curia ed il Seminario, ma non mancò di impegnarsi anche sul fronte del Movimento Cattolico trevigiano, che stava muovendo i primi passi e che dal 1892 in poi avrebbe dato grande impulso alle Casse Rurali cattoliche, e in campo giornalistico con i periodici L'Eco del Sile (1878-82) e Il Sile (1883-1885), sfociati poi dopo qualche tempo ne La Vita del Popolo, fondato nel 1892.
Fu cancelliere vescovile, direttore spirituale del seminario e canonico residenziale.
Durante il periodo trevigiano ebbe modo di addentrarsi sempre più e meglio nei meandri del Diritto Canonico e di conoscere bene i problemi dell'ambiente seminariale.
Come oratore continuava ad essere ricercato, come catechista fece tesoro delle esperienze di Tombolo e di Salzano (portò con sè i due quaderni scritti a Salzano) e in ambito liturgico continuò a tenersi aggiornato, specialmente in tema di Musica Sacra. Circondato, nonostante l'età relativamente giovane, dalla stima dei suoi confratelli, come riconoscimento del suo valore fu eletto primicerio del capitolo il 12 giugno 1879 e, alla morte del vescovo Zinelli, a 44 anni divenne Vicario Capitolare: resse quindi le 210 parrocchie e i circa 350.000 fedeli della diocesi fra il 27 novembre 1879 ed il 26 giugno 1880.
Nel settembre 1884 gli giunse la nomina a Vescovo di Mantova, e il successivo 16 novembre fu consacrato vescovo a Roma, nella chiesa di S. Apollinare, dal cardinale mantovano Lucido Maria Parocchi, vicario di Leone XIII per la città di Roma.

Vescovo di Mantova (novembre 1884-giugno 1893)..........................................................................
Il 18 aprile 1885, fece il suo ingresso nella diocesi di Mantova: una diocesi "difficile", in un ambiente cittadino caratterizzato da diffusa miscredenza, settarismo e anticlericalismo "rabbioso" fomentati dalla attiva presenza della massoneria. Gli ambienti colti erano pervasi da idee ispirate a scientismo, razionalismo e positivismo.
Il capofila del positivismo italiano, Roberto Ardigò (1828-1920), professore del seminario mantovano e canonico, aveva gettato la tonaca alle ortiche nel 1871. E' il caso più celebre ed emblematico, ma già nell'anno precedente 10 sacerdoti avevano smesso l'abito clericale.
Subito il Vescovo Sarto si impegnò per "ricostruire" il seminario, rimasto chiuso qualche anno fra il 1870 ed il 1880. Altro obiettivo fu la "ricostruzione" delle comunità parrocchiali locali dal punto di vista ecclesiale secondo linee pastorali già realizzate e ampiamente collaudate nel Veneto, incentrate su un'attiva vita sacramentale e sull'insegnamento della Dottrina Cristiana. Questa ricostruzione dal punto di vista religioso doveva avere dei riflessi anche in una contemporanea ricostruzione dal punto di vista civile della società mantovana, travagliata dal movimento di ispirazione anarchico-socialista "La boje", nel tentativo di rifondare una Societas Christiana attraverso la rivitalizzazione delle attività che più o meno apertamente presentavano ispirazioni evangeliche.
Il 18 agosto 1885 il nuovo vescovo indisse la Visita Pastorale della diocesi (una seconda fu iniziata il 25 maggio 1889).
Nel campo della Catechesi e della Dottrina Cristiana, già il 12 ottobre 1885 prescrisse che in ogni parrocchia fosse istituita la Scuola della Dottrina Cristiana, e che in tutte le domeniche e le feste di precetto si dovesse spiegare il catechismo al popolo ed ai fanciulli. A volte teneva la catechesi al posto di un parroco che ne fosse per qualche ragione impedito o in parrocchie sprovviste di sacerdote, e vigilava attentamente per rendersi conto personalmente se e come veniva impartito l'insegnamento catechistico nelle parrocchie.
Altro ambito che ha registrato il suo attivo intervento riformistico fu quello della Musica Sacra, perché tale musica, a Mantova come nel Veneto, era di stile teatrale e melodrammatico. Il 15 ottobre 1887 licenziò tutti i cantori del duomo ed istituì la scuola dei cantori seminaristi. Verso la fine del mandato episcopale a Mantova incontrò il giovanissimo Lorenzo Perosi (1872-1956), che gli parlò della musica della celebre abbazia di Solesmes, centro benedettino francese di rinnovamento liturgico e di sviluppo del Canto Gregoriano. Come vescovo, raccomandò quest'ultimo tentando di renderlo popolare affinché fosse cantato durante le celebrazioni liturgiche.
Molto si scritto a questo proposito, ma ecco il suo pensiero in merito: «L'argomento da raccomandare è il Canto Gregoriano e specialmente il modo di cantarlo e renderlo popolare. Oh! se si potesse ottenere che tutti i fedeli, come cantano le Litanie Lauretane e il Tantum Ergo, così cantassero le parti fisse della Messa: il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus, l'Agnus Dei. Questa sarebbe per me la più bella delle conquiste della Musica Sacra, perché i fedeli, prendendo parte veramente alla Sacra Liturgia, conserverebbero la pietà e la devozione". Lo stesso concetto veniva ribadito qualche anno più tardi. "Io me le immagino" scriveva a mons. Giuseppe Callegari durante il periodo veneziano, quando ormai aveva maturato a riguardo una strategia più profonda "mille voci che cantano in una chiesa di campagna la messa degli angeli [...] e resto rapito, come mi eccitano sempre alla pietà e alla devozione i canti del popolo nel Tantum Ergo, nel Te Deum e nelle Litanie e li preferisco alle musiche polifoniche che non siano ben condotte».
Già a Mantova mise in guardia contro quel movimento di pensiero che sarà chiamato Modernismo: il 7 febbraio 1887 puntò il dito contro coloro che «sebbene conoscano superficialmente la scienza della religione e meno la pratichino, pretendono erigersi a maestri e vanno dichiarando [...] dimenticata l'antica follia della Croce, [che] i dogmi della fede debbono adattarsi alle esigenze della nuova filosofia» che veniva proposta dal gesuita inglese George Tyrrell (1861-1909) e dall'esegeta e storico delle religioni francese Alfred Loisy (1857-1940). Essa trovò in seguito in Italia seguaci di un certo rilievo: è un fenomeno da indagare con maggiore imparzialità, ma fu importante perché richiamò l'attenzione, tra le altre, di notevoli personalità, come i sacerdoti Romolo Murri (1870-1944) ed Ernesto Buonaiuti (1881-1946), il romanziere Antonio Fogazzaro (Vicenza,1842-1911), il barnabita ligure Giovanni Semeria (Coldiroli, 1867-Sparanise,1931), Giovanni Genocchi (Ravenna, 1860-Roma,1926), il magistrato romano Adolfo Lepri (1881-1948), Mario Augusto Martini (1885-1962) e Guido Manzelli (1888-1960).
La spinta alla riforma della Diocesi comportò anche la convocazione di un sinodo diocesano, che non si teneva da circa due secoli: indetto il 16 febbraio 1887, fu celebrato dal 10 al 12 settembre 1888, e così la diocesi mantovana si diede quella Magna Charta che aggiornava la sua vita religiosa e toglieva quanto si era venuto disordinatamente accumulando dal '700 al 1887 senza che nessun presule facesse le scelte pastorali necessarie.
Diede spazio all'Azione Cattolica ed ebbe una parte notevole nella costituzione dell'Unione Cattolica Italiana di Studi Sociali, sorta a Padova il 29 dicembre 1889 per opera di mons. Giuseppe Callegari, del trevigiano Giuseppe Toniolo e del bergamasco Stanislao Medolago Albani.
Invitò i suoi parroci a farsi indefessi promotori della comunione frequente e quotidiana, con particolare riguardo all'ammissione alla mensa eucaristica dei fanciulli. Ebbe particolare sensibilità per i problemi dell'emigrazione, che negli anni Ottanta del XIX secolo dissanguava le campagne italiane: cercò di frenare l'ondata migratoria verso i paesi transoceanici e, dove non riusciva, faceva in modo che le parrocchie fossero vicine ai loro parrocchiani lontani.
Come nel Veneto, anche a Mantova condusse una vita semplice: si circondò delle sorelle nubili per accudire le faccende domestiche. Era sempre vicino ai poveri con l'aiuto materiale, ma accoglieva sempre tutti, senza distinzione di ceto sociale e di censo.
I quasi nove anni passati a Mantova presentavano un bilancio ampiamente positivo: la diocesi era ricostruita e saldamente fondata su basi rinnovate. L'azione pastorale sartiana, a cui si guardava con crescente ammirazione, suscitò consensi ed onori: sul vescovo Sarto infatti "vigilava" da Roma un osservatore d'eccezione, cioè il cardinale Parocchi, proprio colui che lo aveva consacrato vescovo, il vicario di Leone XIII. Questi lo definì "miglior vescovo della Lombardia". Fu proposto per la porpora cardinalizia. Rifiutò. Ma il Segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro gli fece capire che rimanere di quell'idea forse avrebbe arrecato un grave dispiacere al Papa. E allora finì con l'accettare. L'onore gli spettò quindi per i meriti acquisiti sul campo a Mantova, e non perché promosso patriarca di Venezia, sede tradizionalmente cardinalizia. Fu eletto cardinale di Mantova, col titolo di S. Bernardo alle Terme, nel concistoro segreto del 12 giugno 1893 e tre giorni dopo, il 15 giugno, fu promosso al patriarcato di Venezia. La sede era rimasta vacante per un anno e mezzo dopo la morte del card. Domenico Agostini, patriarca dal 1877 al 1891, a causa del il rifiuto di numerosi vescovi, ma dovevano passare ancora 15 mesi prima che potesse prendervi possesso: il regio Exequatur non giungeva a causa dell'opposizione di Francesco Crispi, che opponeva il diritto della nomina regia per il patriarcato di Venezia.
Solo il 5 settembre 1894 il re firmò il decreto ed il 24 novembre 1894 il Sarto poteva insediarsi sulla cattedra di S. Lorenzo Giustiniani. I veneziani lo accolsero con grandi feste: forse mancavano solo gli amministratori della città lagunare, di tendenza liberal-democratica, che tennero chiuso per l'occasione il municipio.
Cardinale patriarca di Venezia (1893-1903) Circa un anno dopo l'ingresso, nel 1895, a Venezia si tennero le elezioni comunali, che diedero vita alla Giunta Grimani (per la cui affermazione non fu estranea l'opera del neopatriarca), destinata a governare la città fino al dicembre 1919: era espressa da un raggruppamento di cattolici e di moderati guidati dal conte Filippo Grimani, e costituì una anticipazione di quella stagione del cattolicesimo italiano che, nel periodo giolittiano, portò all'attenuazione progressiva del non expedit di Pio IX e al Patto Gentiloni (1913).
Dal punto di vista pastorale, il periodo veneziano si colloca a metà strada fra il magistero episcopale mantovano ed il magistero universale del papato: vennero ripresi, ampliati ed approfonditi tutti i temi già svolti a Mantova che poi saranno portati in patrimonio a tutta la Chiesa Universale.
L'istruzione catechistica e la predicazione a Venezia erano male organizzate e con finalità non del tutto ben precisate; la sacra eloquenza era tribunizia e retorica, quasi profana. Perciò il nuovo patriarca, come primo atto del periodo veneziano, non poteva non intervenire in merito: il 17 gennaio 1895, ordinava la scuola di catechesi e la formazione dei catechisti, non solo per l'attività nei patronati, ma anche per le scuole municipali. Come a Mantova, frequentemente effettuava qualche blitz per osservare se e come le sue direttive venivano applicate, specialmente in merito allo «spirito di pietà, ardore di carità, scienza e seria preparazione».
Per il seminario ed il clero volle un'organizzazione disciplinare e scientifica adeguata ai tempi, rinnovò il collegio dei professori, riformò gli studi, fondò nel 1902 la facoltà di diritto canonico (la cui attività durò fino al 1932) per dare ai suoi preti una sufficiente conoscenza dei problemi giuridici. Voleva inoltre che partecipassero ogni anno con lui ad un corso di esercizi spirituali, e che intervenissero a conferenze di esegesi biblica, di storia e di archeologia cristiana.
Curava rapporti umani preferenziali con i poveri, era un confessore instancabile, aperto alla conversione dei lontani, un catechista di giovani e fanciulli.
Con la lettera pastorale del 1° maggio 1895 ribadì autorevolmente che il canto e la musica avevano la suprema finalità di essere "preghiera liturgica". Le caratteristiche principali dovevano essere informate a santità del canto, bontà dell'arte, universalità contro le "maniere teatrali". Indicò nel Canto Gregoriano, nella polifonia alla Palestrina e nella preghiera cantata dal popolo le vie maestre della riforma della Musica Sacra.
Il 21 maggio indisse la visita pastorale (che durò fino al 1898) e prese ancora una volta posizione contro il Cristianesimo moderno (Modernismo).
Un fatto totalmente nuovo fu il XIX Congresso Eucaristico, il quinto nazionale italiano
, che vide nel metropolita dei veneti il "principale promotore". L'occasione fu fornita da una profanazione avvenuta nella chiesa degli Scalzi. Il 6 aprile 1895 una mano sacrilega asportò una pisside disperdendo le particole per le calli. «Per fare atto di riparazione a Gesù sacramentato, per il mondo che lo misconosce», il Patriarca indisse subito un Congresso Eucaristico che fu celebrato due anni dopo, tra l'8 e il 12 agosto 1897.
Si prodigò per aumentare nei fedeli l'amore per l'Eucarestia, per far crescere nel popolo mediante la comunione frequente e quotidiana; esortò i parroci ad ammettere a tale sacramento i fanciulli, senza preoccuparsi troppo dell'età, purché fossero abbastanza coscienti del passo che stavano per fare.
Il 1° novembre 1897 indisse il XXIX sinodo della chiesa veneziana, che fu celebrato dall'8 al 10 agosto 1898, con lo scopo di renderla più aderente alle esigenze dei nuovi tempi, dato che la preesistente normativa risaliva al 1865, anno in cui fu promulgata dal card. Giuseppe Trevisanato, patriarca dal 1862 al 1877.
A riguardo del Movimento Cattolico, sulla linea di quanto affermato nei Congressi di Lodi (1890) e di Vicenza (1891), voleva che i cattolici impegnati nel sociale fossero estremamente motivati nell'azione come fratelli, con disciplina, obbedienza, abnegazione nei confronti dei pastori
. Tenne sempre un comportamento super partes, cercando di mediare le varie posizioni ed invitando sempre i sostenitori intransigenti dell'Opera dei Congressi e quelli della corrente murriana, detta democratico-cristiana, a condurre l'impegno politico con aderenza al messaggio della fraternità ed al magistero della Chiesa, pur essendo molto più vicino ai primi come forma mentis e formazione sacerdotale.
La questione sociale lo vide invitare le persone a guardare a Cristo-operaio e prodigarsi per trovare, in ogni occasione di contrasto, un'intesa fra prestatori d'opera e datori di lavoro. Più che per le grandi idee o teorizzazioni (alla Leone XIII, per intenderci) era per gli interventi pratici, ben studiati e "mirati", che potevano tenere a distanza le idee socialiste: diede così impulso alla Scuola del merletto di Burano (che dava lavoro a 400 ragazze) contribuendo all'emancipazione della donna, si premurò contro l'usura per la costituzione delle Casse Operaie parrocchiali, le Casse Rurali ed il Banco di S.Marco, incentivò le società di Mutuo Soccorso (assicurazione contro le malattie), incoraggiò il segretariato del popolo per l'assistenza agli operai ed agli emigranti.
Al secondo Congresso dell'Unione Cattolica degli studiosi di Scienze Sociali di Padova (26-28 agosto 1896) rivolse ai presenti un discorso esclusivamente pastorale e religioso, iniziato e terminato con un solenne Sia lodato Gesù Cristo, che esprimeva la sua visione del problema, imperniata sulla certezza «dell'ortodossia delle dottrine che saranno sviluppate coi criteri più rigorosi della scienza cristiana, nella più schietta adesione alla fede cattolica e nella più perfetta dipendenza dalla Chiesa, in cui continua e si svolge la vita e la dottrina di Gesù Cristo»

Anche da Patriarca, a riguardo della carità materiale personale, era sempre il solito Giuseppe Sarto: non si limitava a dare con giusta misura, ma continuava a privarsi di tutto con "prodigalità".
Nonostante alcuni storici sottolineino la provincialità e la ristrettezza delle sue attività pastorali, il presule veneziano era molto considerato anche a Roma: non era certamente uno sconosciuto, perché era ritenuto la "gemma del sacro Collegio" e Leone XIII espresse il desiderio di averlo a Roma come suo vicario.
Papa Pio X (4 agosto 1903-20 agosto 1914)
Morto Leone XIII il 20 luglio 1903, il card. Sarto partì per Roma il 26 luglio. Ai veneziani che erano accorsi alla stazione per salutarlo assicurò: «o vivo o morto tornerò!»
I papabili erano il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato di Leone XIII, e il cardinale Gotti: ma i tempi erano ormai maturi per una scelta nuova.
Il card. Sarto entrò in conclave nel pomeriggio del 31 luglio e, dopo che le prime votazioni avevano evidenziato una radicale contrapposizione di schieramenti, fu sottoposto a pressioni sempre crescenti; dopo aver inutilmente cercato di non farsi eleggere, nel tardo mattino del 4 agosto fu eletto papa con 50 voti su 62 teoricamente possibili (80,6%). Assunse il nome di Pio, in ricordo dei Papi con questo nome che «nel secolo passato hanno coraggiosamente lottato contro le sette e gli errori», cioè Pio VI, Pio VII e Pio IX.
Annunciò il programma del suo pontificato con l'enciclica E supremi apostolatus cathedra (4 ottobre 1903), nella quale è contenuto anche il motto Instaurare omnia in Christo.
La realizzazione di tale programma ebbe subito inizio con ritmo incalzante: dal motu proprio "Tra le sollecitudini" (22 novembre 1903) per la riforma della Musica Sacra, al motu proprio "Fin dalla prima" (18 dicembre 1903) per il riordinamento dell'Azione Popolare Cristiana, alla costituzione Commissum nobis (20 gennaio 1904) condanna del Veto in Conclave, cioè quell'anacronistico diritto delle potenze europee di opporsi alla elezione a Papa di un cardinale non gradito: fu usato per l'ultima volta dal card. Puzyna di Cracovia proprio nel conclave da cui uscì eletto.
Seguirono l'enciclica Ad diem illum (2 febbraio 1904) per il cinquantesimo anniversario della definizione del dogma dell'Immacolata Concezione, la lettera Quum arcano (11 febbraio 1904) con la quale indiceva la visita apostolica alla città di Roma
, seguita in breve tempo dal decreto Constat apud omnes (7 marzo 1904), in cui prendeva un'analoga iniziativa per la visita apostolica alle diocesi italiane.
Poi era la volta dell'enciclica Iucunda sane (12 marzo 1904) per il XIII Centenario di S. Gregorio Magno e del motu proprio Arduum sane munus (19 marzo 1904) per la compilazione del nuovo Codice di Diritto Canonico: non vedrà ultimata questa immane impresa, che verrà presentata alla Chiesa dal suo successore, Benedetto XV, il 25 maggio 1917, giorno di Pentecoste.
Sul fronte politico italiano, il nuovo Papa iniziò con cautela e circospezione ad attenuare il Non expedit e ad aprirsi alle correnti politiche moderate per evitare l'elezione di esponenti radicali o socialisti. Di fronte alla crisi dell'Opera dei Congressi, prese la decisione del suo scioglimento; secondo un disegno strategico improntato all'azione del laicato sotto un rigido controllo ecclesiastico, con la lettera La lettera circolare (1 marzo 1905) riprovò la Democrazia Cristiana Autonoma e con l'enciclica Il fermo proposito (11 giugno 1905) favorì la riorganizzazione dell'Azione Cattolica in Italia. Conscio dell'importanza del laicato cattolico nella riconquista cristiana della società, vedeva nella sua azione un prolungamento dell'azione del clero, in una visione confessionale nella quale emergeva la pragmaticità pastorale di antico parroco di Salzano.
Il 1905 fu anche l'anno dell'enciclica Acerbo nimis (15 aprile 1905) sull'insegnamento del Catechismo, uno dei primi interventi in questo ambito, per cui sarà chiamato il "Papa del catechismo", unitamente all'appellativo di "Papa dell'Eucaristia", perché l'Eucaristia fu il tema fondamentale del decreto Sacra Tridentina Synodus (20 dicembre 1905), riguardante la comunione frequente e quotidiana.
Nell'ambito della politica internazionale, era frattanto scoppiata la «questione francese», dopo le vicende legate alle "leggi inique" votate in Francia contro la Chiesa fra il 1880 ed il 1903, e le controversie che avevano seguito la visita al Quirinale del presidente francese Émile Loubet (1838-1929), avvenuta nel 1904, il 9 dicembre 1905 il parlamento francese votò la legge di separazione fra Stato e Chiesa. La risposta di Pio X non si fece attendere e si concretizzò in due encicliche contro il governo francese: nell'enciclica Vehementer condannò la separazione della Chiesa dallo Stato in Francia (11 febbraio 1906), e nella Gravissimo officii munere condannò le leggi cultuali proposte dal governo francese (10 agosto 1906).
Non furono questi gli unici atti legati a controversie fra Chiesa e Stato. In altri paesi, come in Ecuador e, qualche anno dopo in Portogallo, lo stato aveva emanato "leggi persecutrici" nei confronti della Chiesa: Pio X espresse il "suo dolore" con la lettera Acre nefariumque bellum (14 maggio 1905) contro le leggi votate nell'Ecuador e, sei anni dopo, con l'enciclica Jamdudum in Lusitania, per quelle votate in Portogallo (24 maggio 1911).
A coronamento di un'opera efficace ed attenta, durata almeno 30 anni, non mancò un progetto di riforma dei Seminari d'Italia, realizzato con un provvedimento autorevole il 16 gennaio 1906. Dello stesso anno due interventi, uno sul clero ed uno sul Sacramento dell'Eucaristia: l'enciclica Pieni l'animo sull'educazione del giovane clero (28 luglio 1906) ed il decreto Post editum sulla Comunione ai malati non digiuni (7 dicembre 1906).
Dopo avere ancora una volta manifestato la posizione della Santa Sede nei confronti del governo francese, con l'enciclica Une fois encore (6 gennaio 1907), Pio X condannò 65 proposizioni moderniste nel decreto Lamentabili sane exitu (3 luglio 1907) ed il movimento modernista con l'enciclica Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907), etichettandolo come la sintesi di tutte le eresie ed aprendo una stagione della storia della Chiesa contemporanea non ancora compresa a fondo. Il 1907 fu l'anno in cui culminò in modo virulento questa lotta: per i fatti successi si rese necessario un supplemento d'indagine alla soglia della beatificazione, per rispondere ad una ridda di sospetti e di "veleni" propalati sull'operato e sulle effettive responsabilità del Papa,
che intervenne con estremo vigore, sempre con pugno di ferro in guanto di velluto, dato che la sua formazione intransigente non gli permetteva altri modi di agire, ed i tempi in cui visse non permettevano di distinguere tra "errante" ed "errore". I testimoni ai processi canonici concordano che, se dimostrò «una energia inesorabile, pienamente giustificata dalla gravità del pericolo che incombeva sulla Chiesa, con i Modernisti dimostrò sempre una carità insuperabile ed una misericordia senza misura. [...] voleva che si sperimentassero tutti i mezzi umanamente possibili per ammonirli e persuaderli dei loro errori, raccomandando vivamente che non si mancasse alla carità. [...] non li abbandonava a se stessi: li seguiva con occhio paterno, tentava ogni via per richiamarli e se si fossero trovati in ristrettezze economiche provvedeva anche al loro sostentamento». Nella parte dispositiva dell'enciclica le misure previste erano mirate, e culminarono con l'imposizione di un giuramento antimodernista (1 settembre 1910), a riprova della costante sollecitudine di Pio X per l'integrità del Depositum Fidei. Dall'atteggiamento antagonistico di fronte alle nuove idee ed ai nuovi fermenti interni ed esterni alla Chiesa, è nata la convinzione che papa Sarto sia stato un papa "retrogrado" e "reazionario".
Non sono però mancati anche interventi di originale portata riformatrice e di respiro universale: come la costituzione apostolica Sapienti consilio, che riformava la curia romana (29 giugno 1908), la lettera Quidquid consilii sull'unione delle chiese orientali (8 luglio 1908), e la lettera apostolica ai vescovi d'oriente sull'unione delle chiese del 26 dicembre 1910, che sottolinea uno degli aspetti ecumenici più interessanti del pontificato di Pio X.
Di influenza particolarmente efficace fu l'esortazione al clero Haerent animo, scritta per la celebrazione del suo giubileo sacerdotale (4 agosto 1908).
Il 29 settembre 1908, con la costituzione apostolica Promulgandi pontificias, fondò il periodico Acta Apostolicae Sedis, unico organo di stampa ufficiale della Santa Sede per i problemi dottrinali e disciplinari, che sostituiva il precedente Acta Sanctae Sedis, istituito da Pio IX nel 1865.
Seguirono poi le encicliche Communium rerum, nel VIII Centenario di Sant'Anselmo d'Aosta (21 aprile 1909), Vinea electa riguardante la fondazione dell'Istituto biblico (7 maggio 1909), Editae saepe, nel III Centenario di San Carlo Borromeo (26 maggio 1910) e Quam singulari Christus amore sulla Comunione dei fanciulli (8 agosto 1910), una delle sue più famose encicliche eucaristiche, quella per la quale ebbe a dire: «questo documento mi è stato ispirato da Dio stesso».
In ambito sociale gli interventi di papa Sarto furono di certo non altisonanti come quelli del predecessore Leone XIII: sono da segnalare l'intervento per l'inaugurazione della Scuola Sociale Cattolica di Bergamo il 15 agosto 1910, e la lettera Notre charge apostolique del 25 agosto 1910, nella quale condannò le teorie della rivista Sillon di Marc Sangnier (Parigi, 1873-1950), il quale prontamente si sottomise in modo pieno ed incondizionato al volere del Papa. Altro fatto da sottolineare è che durante il pontificato di Pio X si assistette ad una maggiore sensibilizzazione ed organizzazione delle attività della Chiesa a favore dell'emigrazione.
Altri atti pontifici di Pio X furono la costituzione apostolica Divino afflatu, che riformava il breviario romano (1 novembre 1911), la costituzione apostolica Etsi nos, che prevedeva la riforma del vicariato di Roma (1 gennaio 1912), l'enciclica Lacrimabili statu sulle disumane condizioni degli indios nell'America Latina (7 giugno 1912), l'enciclica Singulari quadam sui sindacati operai in Germania (24 settembre 1912) e la lettera apostolica Universis Christi fidelibus dell'8 marzo 1913, per il XVI Centenario Costantiniano.
Dall'esame degli atti di papa Pio X può sorprendere il fatto che papa Sarto non sia mai intervenuto a riguardo di argomenti scientifici, anche se quelli in cui visse erano anni che registravano lo scardinamanto di secolari fondamenti della fisica con la formulazione della teoria dei quanti (1900) di Max Planck (1858-1947), della teoria della relatività ristretta (1905) di Albert Einstein (1879-1955) e dell'interpretazione atomistica della realtà fisica (1903-1913) ad opera di Joseph John Thomson (1856-1940), Ernest Rutherford (1871-1937) e Niels Bohr (1885-1962).
E' un fatto strano, perché Giuseppe Sarto ha sempre coltivato studi scientifici, con speciale riguardo alla matematica e all'astronomia: è sempre riuscito bene in questo tipo di studi, ha espresso la sua versatilità scientifica nella costruzione di meridiane e, da Papa, ha seguito l'attività della Specola vaticana fondata dal suo predecessore.
Il progressivo declino della salute e le condizioni politiche che si deterioravano sempre di più in Europa lo portarono alla tomba. Angosciosamente il 2 agosto 1914 inviò l'esortazione Dum Europa a tutti i cattolici del mondo per implorare la cessazione della guerra europea appena scoppiata, che poi sfocerà nella Prima Guerra Mondiale: è un accorato appello a porre fine alle ostilità e ad esperire ogni strada per la composizione del conflitto nell'interesse superiore dell'umanità e della pace. Un testamento di pace dei più alti che siano stati consegnati alle future generazioni. Morì alle 1.16 del 20 agosto 1914, giovedì. Fu sepolto nelle grotte vaticane e sulla sua tomba furono scritte le parole: PIUS P.P. X - DIVES ET PAUPER - MITIS ET HUMILIS CORDE -

I processi canonici (1923-1946)
La fama di Pio X come santo è sempre stata sulla bocca di tutti. Gli agiografi di Pio X assicurano la fama della sua santità in vita, in morte e dopo la morte.
Quasi nove anni dopo la sua morte, il 14 febbraio 1923, 28 cardinali domandarono al Papa la glorificazione di Pio X ed incaricarono come postulatore della causa don Benedetto Pierami dei Benedettini Vallombrosani, abate di S. Prassede. Questi organizzò i processi informativi ordinari diocesani, celebrati fra il 1923 ed il 1931, in diocesi di Treviso (1923-26), di Mantova (1924-27), di Venezia (1924-30) e di Roma (1923-1931) raccogliendo le deposizioni di 205 testimoni. L'immane lavoro finì l'8 luglio 1931.
Il Pierami morì improvvisamente il 12 agosto 1934: il 18 ottobre successivo fu incaricato don Alberto Parenti della medesima congregazione religiosa, che a conclusione degli studi sui processi ordinari, il 12 febbraio 1943 poté dare alle stampe la Positio super causae introductione.
Tra il 1943 ed il 1946 furono celebrati nelle quattro diocesi i processi apostolici e furono sentiti 89 testimoni. Tre anni più tardi, nel 1949, fu data alle stampe la Positio super virtutibus.
Per il 1950 Pio XII aveva i animo la celebrazione di tre grandi avvenimenti: il dogma dell'assunzione in cielo della Vergine, l'Anno Santo e la beatificazione di Giuseppe Sarto, ma all'ultimo momento furono mossi seri rilievi sul comportamento tenuto dal Papa nel periodo della lotta al Modernismo, e fu quindi istruito un processo straordinario a partire dal 15 dicembre 1949, celebrato a causa delle Animadversines del promotore della fede Salvatore Natucci. Alla fine fu stampata la Nova positio super virtutibus (1950) con un Summarium addizionale di documenti.
Superate tutte queste difficoltà, la causa subì una notevole accelerazione: l'11 febbraio 1951 furono riconosciuti i due miracoli richiesti per la beatificazione e il 4 marzo successivo fu pubblicato il decreto del Tuto, che sanciva giuridicamente la possibilità di potere procedere.
Il 3 giugno 1951 avveniva la solenne cerimonia della beatificazione. Il papa Pio XII ebbe parole di particolare effetto e fu perfettamente conscio della complessità storica dell'azione del papa di Riese, suo predecessore, a lui ben noto fin dal tempo in cui iniziò la sua carriera diplomatica presso la Segreteria di Stato: Pio X, «col suo sguardo d'aquila più perspicace e più sicuro che la veduta corta di miopi ragionatori [...], illuminato dalla chiarezza della verità eterna, guidato da una coscienza delicata, lucida, di rigida dirittura» è «un uomo, un pontefice, un santo di tale elevatezza» che «difficilmente troverà lo storico che sappia abbracciare tutta insieme la sua figura e in pari tempo i suoi molteplici aspetti».

Otto mesi più tardi, il 17 febbraio 1952, la sua venerata salma venne posta sotto l'altare della Presentazione in S. Pietro.
Dopo la beatificazione, l'iter glorificatorio procedette speditamente: il 17 gennaio 1954 furono riconosciuti i due miracoli necessari per la canonizzazione. Il 29 maggio 1954, davanti ad 800.000 persone, Pio XII celebrò la cerimonia della canonizzazione.
Pio X è l'unico Papa santificato dal XVII secolo in poi: è sembrato a tutti che si attualizzasse la profezia de Il Giornale d'Italia, che aveva scritto: «La Storia ne ha farà un gran Papa: la Chiesa ne farà un gran Santo».


La Tiara di San Pio X... che meraviglia!


Cose del genere, probabilmente, non ne vedremo più (l'uso della Tiara è stato abolito da Papa Paolo VI nel 1963, quello della Sedia Gestatoria da Giovanni Paolo II nel 1978...) ma dobbiamo essere grati al Santo Padre Benedetto XVI che è tornato ad usare vesti e paramenti tradizionali (il camauro, il saturno, la mozzetta di velluto rosso bordata d'ermellino, i piviali, le mitrie classiche) mai aboliti e che contribuiscono a creare quella mistica atmosfera della Liturgia tradizionale che aiuta non poco a sentirsi davvero un po' più vicini a Dio, ad amarLo e a temerLo con l'amore e il rispetto si devono ad un Padre giusto!

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S. Natale 2007

Messaggio di S.S. il Papa Benedetto XVI per il S. Natale
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Cari fratelli e sorelle! "Un giorno santo è spuntato per noi". Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una "grande luce" apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano: "lux magna", canta la liturgia di questo giorno di Natale. Non fu certo "grande" alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: "il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria" (Gv 1,14)
"Dio è luce – afferma san Giovanni – e in lui non ci sono tenebre" (1 Gv 1,5). Nel Libro della Genesi leggiamo che quando ebbe origine l’universo, "la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso". "Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu" (Gn 1,2-3). La Parola creatrice di Dio è Luce, sorgente della vita. Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3). Ecco perchè tutte le creature sono fondamentalmente buone, e recano in sé l’impronta di Dio, una scintilla della sua luce. Tuttavia, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: "Dio da Dio, Luce da Luce", professiamo nel Credo. In Gesù Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: "l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo" (cfr Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama" (Lc 2,14).
"Oggi una splendida luce è discesa sulla terra". La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: "Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo" (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la "grande" luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la "vera" pace: ecco perchè ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.
Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E’ il giorno santo in cui rifulge la "grande luce" di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (cfr Lc 2,15-20). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.
Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.
La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell'ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all'istruzione, a un'occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali.
In questo giorno di pace, il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell'Eritrea e dell'Etiopia, all'intero Medio Oriente, in particolare all'Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all'Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani, e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature. Alla sete di senso e di valore che avverte il mondo oggi, alla ricerca di benessere e di pace che segna la vita di tutta l’umanità, alle attese dei poveri Cristo, vero Dio e vero Uomo, risponde con il suo Natale. Non temano gli individui e le nazioni di riconoscerlo e di accoglierlo: con Lui "una splendida luce" rischiara l’orizzonte dell’umanità; con Lui si apre "un giorno santo" che non conosce tramonto. Questo Natale sia veramente per tutti un giorno di gioia, di speranza e di pace!
"Venite tutti ad adorare il Signore". Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, fratelli e sorelle di ogni continente, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. E’ questo il mio augurio per voi che mi ascoltate. Augurio che si fa preghiera umile e fiduciosa al Bambino Gesù, perché la sua luce disperda ogni tenebra dalla vostra vita e vi ricolmi dell’amore e della pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, vi appaghi della sua felicità e vi renda messaggeri della sua bontà. Buon Natale!

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Thursday, December 06, 2007

Omaggio al grande ALIGHIERO NOSCHESE

Ho imparato ad imitare a sette anni... prima gli amici dei miei genitori, poi i professori delle medie, del liceo,... i colleghi di lavoro, i capi e i «caporali»...

L'imitazione è così divenuta presto una mia peculiarità, come il disegno e il look Anni Sessanta...
... e allora nel mio blog non può mancare un omaggio, riconoscente e commosso, al re degli imitatori, il «ladro di anime» - come lo definiva Federico Fellini -, l'unico, irripetibile, «inimitabile», irragiungibile... ALIGHIERO NOSCHESE.

Il volto di gomma che, da bambino, mi faceva attendere con trepidazione il sabato sera per assistere dal teleschermo in bianco/nero agli show - Canzonissima 71, Canzonissima 72, Formula Due (1973), Ma che sera (1978) - in cui lui imitava con perfezione unica politici italiani (Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Mariano Rumor, Arnoldo Forlani, Giovanni Leone, Francesco Cossiga, Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Marco Pannella, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Adele Faccio...) e stranieri (Richard Nixon, George Pompidou, Jimmy Carter, Mao Tse-tung, lo Socià di Persia con la moglie Farah Diba, la regina Elisabetta II, Willy Brandt...), giornalisti televisivi (Mario Pastore, Sergio Telmon, Ugo Zatterin, Sandro Paternostro, Ruggero Orlando, Piero Angela...), divi e dive della canzone e del cinema (Milva, Gianni Morandi, Mina, Celentano, Giorgio Gaber, Bobby Solo, Alberto Sordi, Caterina Caselli, Patty Pravo, Isabella Biagini, Sophia Loren, Ornella Vanoni, Gigliola Cinquetti,...), volti della TV (Mariolina Cannuli, Corrado, Mike Bongiorno, Raffaella Carrà,...).

Truccato fino a rendere difficile distinguere l'imitatore dall'imitato oppure «senza parrucche o baffi appiccicati», con la sola voce e pochi gesti, senza barriere di sesso o di registro vocale, Noschese più che imitare incarnava, si trasformava nel personaggio, rendendolo con ironìa salace ma sempre garbata, con finezza ormai dimenticata insieme con i telericevitori a valvole di quegli anni fantastici.

*
Ecco alcune immagini di Noschese: anzitutto il suo vero volto, poi alcune sue imitazioni:



























Biografia:

Nato a Napoli il 25/XI/1932, dopo avere tentato senza successo la carriera giornalistica, aveva debuttato in radio come imitatore e parodista. Compare come ospite in diverse trasmissioni televisive ed è protagonista in teatro di due spettacoli di Garinei e Giovannini: Scanzonatissimo e La voce dei padroni, ma il salto di qualità avverrà nello show del sabato sera Doppia Coppia, trasmesso da Raiuno nel 1969: in quella occasione riesce ad ottenere l'autorizzazione a imitare personaggi politici, cosa fino ad allora proibita.
Da quel momento, a detta dello stesso Noschese, pare che molti personaggi del campo dello spettacolo e della politica gli abbiano espressamente chiesto di essere imitati, sia per acquisire maggior visibilità, sia per non essere considerati come personaggi di secondo piano. Paradossalmente, essere imitati da Noschese era divenuto sinonimo di massima notorietà.
Raggiunse il successo apparendo in
RAI con imitazioni di personaggi celebri di ogni genere, tra i quali politici, attori e cantanti del tempo, fra la fine degli anni Sessanta e nel corso degli anni Settanta. È considerato il più fecondo e popolare imitatore della storia della televisione italiana.
La brillante carriera di Noschese prosegue con le due edizioni di
Canzonissima presentate da Corrado e Raffaella Carrà (1970 e 1971), successivamente con Formula due (1973) e Ma che sera (1978).
Oltre alla capacità di riprodurre in modo pressoché perfetto voce, atteggiamenti e caratteristiche fisiche dei soggetti delle sue imitazioni, Alighiero Noschese riusciva a satireggiare in modo sottile e mai volgare, creando gag e battute pungenti. Restano memorabili le sue caratterizzazioni di
Ugo Zatterin, moderatore di tribune elettorali, dell'annunciatrice Mariolina Cannuli di cui enfatizzava l'atteggiamento sensuale, dei giornalisti Paolo Cavallina, Ruggero Orlando, Mario Pastore, di Mike Bongiorno, Gianni Morandi, Alberto Sordi, e dei politici Ugo La Malfa e Giovanni Leone.
Il
3 dicembre del 1979, ormai al culmine della sua carriera, a soli 47 anni si tolse inaspettatamente la vita con un colpo di pistola mentre era ricoverato in una clinica romana per sottoporsi a una cura per la depressione. Il suo suicidio destò scalpore e alcuni dubbi per la dinamica dell'accaduto (fu molto strano, infatti, che un uomo malato di depressione e ricoverato in un nosocomio per quella ragione, avesse con sé una pistola) e per le circostanze che lo accompagnarono, che alcuni hanno messo in relazione al fatto che Noschese risultò iscritto alla loggia massonica P2; ma vi è anche l'ipotesi che l'attore abbia deciso di togliersi la vita perché avrebbe scoperto, durante il ricovero, di essere affetto da un tumore.

Comunque siano andate le cose, resta il vuoto che sempre lascia la scomparsa del vero artista: creativo, meticoloso, arguto ma mai sguaiato, originale, innovativo. Resta la nostalgia per quella televisione in bianco e nero intima, familiare, discreta, educata, didattica e divertente, fatta da gente preparata, sul palco e dietro le quinte. Purtroppo, come tutte le cose belle, finite troppo presto, lasciano il languore dell'addio, proprio come la chiosa finale dell'ultimo show di Noschese (Ma che sera del 1978) prima dei titoli di coda:... Alighiero vi saluta e se ne va!

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